giovedì 27 aprile 2017

A volte un dejà-vu fa bene al cuore


Il momento in cui capisci di essere entrato nell'età adulta è scandito da tanti eventi diversi. La prima volta che guidi una macchina, la laurea, il primo colloquio di lavoro, il primo stipendio, il primo viaggio con le amiche, la prima storia seria, i primi grandi dolori. 
Sulla mia soglia c'è una consapevolezza.
Ho capito che l'amore, adesso, non è fatto quasi più di prime volte. 
C'era il primo bacio, la prima volta che qualcuno ti aspettava davanti scuola, il primo "ti amo", la prima volta che fai l'amore.
Adesso ci sono gesti che abbiamo visto e rivisto tante volte. Alcuni li abbiamo vissuti talmente spesso che non ci meravigliano più. Le uscite con gli amici, il pranzo in famiglia, i viaggi, fare l'amore, raccontarsi del proprio passato, regalare dei fiori, un litigio.
Però ho capito anche che, se siamo abbastanza saggi per capirlo, abbiamo la chiave della felicità in mano e possiamo usarla per aprire la porta.
Non c'è passato che tenga, per quanto simile, per quanto a volte si viva di dejà-vu, dobbiamo concentrarci sulle sensazioni che quei momenti già vissuti ci regalano.
Mangiare la solita pizza o il solito sushi, ma rannicchiarsi a guardare quel film che volevamo tanto vedere, in una bolla che sa di casa; il pranzo in famiglia, ma le risate genuine e, invece di percepirci come due in una tavolata, sentirsi sempre un singolo, uno parte di un noi che è anche parte di un tutto più grande; quei viaggi in cui poi ti rendi conto che le stesse strade danno sensazioni diverse, che questa volta quasi quasi sei tu a dover abbassare il volume e puoi giocare al gioco delle domande quanto vuoi, e che non importa la meta, a volte puoi perderti, senza programmare; svegliarsi la mattina pelle a pelle, caldi e morbidi di sonno, e abbandonarsi alle sensazioni ad occhi chiusi, con pigrizia e dolcemente, rapiti da quel là ed ora, senza passati, senza futuri.
E poi ci sono quelle pennellate nuove, quei tocchi di colore che ti sorprendono e che non devono essere troppi o tanti, ma che se ci sono ti strappano un sorriso in più. Una colazione al letto o un sorriso al momento giusto, e tutto si sedimenta.
La porta si apre da sola, la chiave nemmeno serve.
La chiave serve per mettersela in tasca e ricordarci che c'è, che quello che abbiamo, benché non nuovo, non "primo", a volte simile, è tutto quello che abbiamo e dobbiamo goderne, senza occhi al passato, forse solo occhi al futuro.

martedì 11 aprile 2017

The perks of being a teacher

Sono reduce dai colloqui con i genitori.
Una cosa che non avevo considerato quando ho cominciato a insegnare nella mia scuola.
Avevo messo in conto tempo x per preparare lezioni, tempo infinito per correggere i compiti in classe, le writings e i summary, e tempo incalcolabile per andare e tornare da lavoro ogni giorno.
Ma non avevo messo in conto l'esperienza dei colloqui con i genitori.

Mi sono persino abituata al terrorismo psicologico della vicepreside, un manico di scopa con i capelli a mocho Vileda tinti di un orrido biondo platino; ho anche imparato i nomi di tutto il personale tecnico della scuola, roba che quando entro, la mattina, sembro Cindy Crawford (decisamente più bassa, senza neo e meno gnocca) a una serata di gala. "Buongiorno, signor Eugenio!" (il mio bidello preferito - si può dire bidello? è politically correct?), "Buongiorno, Salvatore!" (il mio collega preferito, a cui insegno inglese una volta a settimana con altri docenti), e le segretarie, e persino il signore che rifornisce le macchinette e mi lascia da parte il biscotto alla farina di riso Scotti al cocco, perché sa che è l'unico senza latte.
Ho imparato persino i nomi di tutti i miei ragazzi, giuro. Anche se ogni tanto scambio ancora Sara con Giulia e Niccolò con Lorenzo. Ma ci lavorerò su.
E ho imparato anche dove sono le aule e dove sono i bagni, e non mi perdo più per cercare la famigerata aula multimediale che sta nell'ala est della scuola, con tanto di rosa che perde i petali e Bestia.
Ormai sono anche rassegnata al fatto che Mocho sembri totalmente impermeabile al concetto che io non lavoro per lei ma per la mia azienda e che quindi non sono a disposizione della scuola e che ogni richiesta deve passare prima per le mie responsabili (che sono, tra parentesi, due sante).

Però ai colloqui non ero psicologicamente pronta. Un po' perché dovevo starci due orette (per il motivo di cui sopra) e invece sono rimasta inchiodata in aula tre ore e mezza, e un po' perché rispetto ai miei tempi sono, come la scuola si vanta di essere in tutto del resto, all'avanguardia.
Ti viene assegnata un'aula (rigorosamente, per noi docenti esterni, quelle del terzo piano che alle 4 del pomeriggio sono arroventate), i genitori controllano sul sito della scuola quale, si fanno il sacrosanto fogliettino e poi vanno fuori da ogni aula a scrivere il nome del figlio sotto il tuo nome per "prenotarsi". Ecco, io ieri avevo 40 prenotati. Praticamente 25 in più della docente dirimpettaia, che ne insegna Chimica. Tiè, becca.

Ma quando dico 40, dico 40 tutti di seguito, roba che non ho potuto né bere né andare in bagno e che la fiumana non si arrestava mai. C'era chi veniva già sapendo che il figlio è bravissimo, chi mi guardava con gli occhi da Beagle per farselo dire, chi non sapeva nemmeno che il figlio avesse preso 5, chi mi saltellava dicendo che il figlio non fa che parlare di quanto la prof sia bella e brava e che si è affezionato, quelli a cui dicevo apertamente che, in caso volessero diseredare il figlio, lo avrei adottato io, e quelli che entravano in aula, si fermava a guardarmi con occhio pallino e mi dicevano "No, mi scusi, io cercavo la professoressa ****". E io "Sono io!" e loro "Ah."
E quel "ah" aveva un'eco infinita, mentre mi sbirciavano di sottecchi durante il colloquio, e fissavano i miei tacchi 12, lo zaino rosa di Decathlon, la penna di Shakespeare e la cover del cellulare tutta colorata non riuscendo bene a capire come si conciliassero tutte queste cose nella figura di una prof di inglese.

Sono uscita dalla scuola come nel mito di Platone. Senza voce, vedevo i draghi, e mi facevano male le mascelle a forza di sorridere.
Mi sono buttata con Guapa, la mia collega di spagnolo, nel bar di fronte alla scuola, malfamatissimo di sera, per un crodino pre-treno e siamo collassate sui sedili dell'autobus come palloncini sgonfiati. 
Stiamo per scendere alla stazione centrale e lei mi fa: "Ma lo sai che mi sa che ho scambiato un genitore per un altro? Pensavo fosse il padre di Lorenzo della IA, ma era di Lorenzo della IIB"
E io: "Invece tu lo sai che io ho parlato 5 minuti del rendimento di un ragazzo e solo quando la madre se ne è andata ho realizzato chi fosse quel ragazzo?".

Ecco, io vi giuro che ci provo a essere bravabellabuona, ma poi ogni tanto ho le mie ricadute.