mercoledì 25 febbraio 2015

#guardacomeviaggio! - Il viaggio secondo G

Mi unisco ad un'iniziativa lanciata da La Folle, ed ecco qui il mio resoconto sul mio modo di viaggiare.
Linda - Photo by G

La scelta della meta, di solito, è all'insegna dell'unire l'utile al dilettevole. Questo non vuol dire che non faccio viaggi di piacere, anzi, ma cerco posti in cui non ci sia mai solo da riposarsi. Non sono il tipo che riesce a stare sul lettino a prendere il sole, a meno che non ho le parole crociate da fare, né quello che visita una città senza almeno aver visto le sue attrazioni più famose.
Potete ben capire che quando si ritrova in paesini che sono più deserti del Gobi, una come me va completamente fuori di testa per la mancanza di cose da fare. E' per questo che pianifico bene il mio bagaglio
Di solito faccio una lista. La prima cosa che scrivo è libri. E non importa se mi dimentico le mutande o lo spazzolino, loro vengono prima di ogni altra cosa. Il numero è, solitamente, inversamente proporzionale al numero di giorni in cui sarò via. Ciò vuol dire che se sto fuori un weekend sono capace di portarmi dietro l'intero canone di Shakespeare più il Faerie Queene di Spenser.
Per i vestiti cerco di organizzare abbinamenti intercambiabili che mi permettano di portarmi dietro il meno possibile, perché, diciamocelo, stirare in vacanza non è granché. Compenso, ovviamente, con il numero di mollette, forcine e elastici (rigorosamente in tinta con i vestiti) per domare la chioma ribelle e i calzini (sono come la copertina di Linus, per me).
Il posto d'onore nella valigia (rigorosamente bagaglio a mano, a parte i miei due valigioni rosa shocking che hanno macinato chilometri e chilometri durante l'Erasmus), però, ce l'ha lei. Linda. La mia agendina. E' il corrispettivo G-esco del database della NASA e del Pentagono messi insieme.
Ci sono appunti su cosa andare a visitare, dove, quando e perché, i nomi dei ristoranti che cerco prima su Tripadvisor (gettonati sono quelli tipici e i vegani, dove posso mangiare senza dover tenere il Bentalan a portata di mano), e una progettazione quasi maniacale dei giorni a disposizione, per visitare tutto il visitabile nel tempo a disposizione. Lo so, sembro progettata dal signor Ikea, ma giuro che il mio metodo alla Sergente Hartman dà sempre i suoi frutti. E' molto utile per mangiare bene: finisco sempre in posticini carini, poco frequentati dai turisti, in cui si ha un assaggio (metaforico e non) delle tradizioni del posto. Ancora mi lecco i baffi per una paella sublime mangiata in un angolino remoto delle Ramblas.
Un altro must dei miei vaggi è la musica. Lettore mp3 a parte, sempre pronto all'evenienza con i miei brani preferiti, mi piace preparare compilation o portare cd che mi sembrano adattarsi alla meta e ad il tipo di viaggio.
Prima di un breve soggiorno a Firenze con Tegolino caricai, ad esempio, una bella dose di Damien Rice, Of Monsters and Men e Bob Dylan. Prima di Barcellona puntai sul glam rock e sul rock, tipo Joan Jet, AC/DC, Eric Clapton, Journey, Kiss e Queen. Ora ne sto preparando una per un imminente weekend senese, che includerà molto probabilmente i Message to Bears e Bowie. Non so perché, ma quando viaggi in auto David Bowie trasforma la cosa in un viaggio verso l'infinito. Ah, molto probabilmente stordirò Tegolino a forza di canzoni di Sinatra. Ultimamente ci vado in loop.
Per quanto riguarda gli hotel, la prima cosa che faccio è controllare le recensioni su Tripadvisor. Seriamente, ho una dipendenza. Però ci azzecco sempre. L'anno scorso ho soggiornato in un piccolo B&B al centro di Firenze con Tegolino, e siamo stati benissimo. L'unica condizione? La pulizia. Sulla pulizia sono inflessibile, non mi piego e non mi spezzo. Faccio poco caso alla qualità o quantità del cibo, un po' perché la mia allergia mi permette di mangiare solo fette biscottate (se mi dice bene) e marmellata, e un po' perché non scelgo mai di pranzare o cenare in hotel. 
Tra le abitudini, sicuramente al primo posto c'è quella di fotografare la stanza dell'albergo per farla vedere ai miei, soprattutto per rassicurare mia mamma, che è molto più Mastro Lindo di me. Una cosa che, da sempre, mi piace in maniera singolare è collezionare biglietti da visita e biglietti vari, del treno, della metro, dell'aereo, e fino ad ora ne ho una scatola piena. Ho deciso che un giorno farò un bell'album dei miei vaggi e ce li attaccherò tutti dentro. Al momento il pezzo più bello è il biglietto della metro di Atene. Ci sono davvero affezionata, perché fu il mio primo viaggio all'estero, in gita con la classe prima della maturità.
Adoro i souvenir! Colleziono anche cartoline, ma mi piacciono i classici oggettini che solo un turista può essere tanto cieco da comprare nonostante la loro pacchianeria (l'anno scorso per poco non compravo un cappello a forma di cinghiale di peluche). Eppure ne compro in gran quantità. In particolare, il primo pensiero è quello di portare a casa una calamita, visto che, grazie alle abilità da manovale di babbo Telesforo, abbiamo dovuto sostituire il frigo con uno su cui le calamite fanno presa. Il lato negativo è che mia mamma le dispone secondo un'equazione precisa e non bisogna più spostarle; della serie che se ci aliti sopra e si spostano di un centimetro, lei sa (il mio disturbo ossessivo compulsivo dovevo pur riprenderlo da qualcuno).
Ultimamente, in tema di souvenir, mi sono specializzata nel settore alimentare: da Malta riportai miele e un liquore al fico d'india; da Firenze una pagnotta di pane sciapo a mia mamma, che, dall'alto delle sue radici toscane, ne sentiva la mancanza. Probabilmente a Siena svaligerò un supermarket. E dall'Inghilterra, dopo la conferenza, contrabbanderò the.

Rilancio a voi, se volete, per parlare dei vostri viaggi!

Un abbraccio
G



domenica 22 febbraio 2015

Missing Malta

Azure Window - Gozo
Photo by Tegolino
Questa è la serata nostalgia.
Ho messo su l'ultimo cd di Damien Rice, che, per la cronaca, credo sia il suo miglior album. Poi ho letto qualche poesia di Frank O'Hara. Alla fine ho ricominciato a guardare le foto del mio anno maltese. E lì, bam, mi ha preso una botta di nostalgia schiacciante.
Mi manca il mare, benché io abbia sempre preferito la montagna, e quella distesa azzurra e brillante che si perdeva a vista d'occhio ovunque mi girassi, che ogni tanto osservavo dalla finestra del laboratorio di linguistica computazionale.
Mi manca il sole caldo sulla pelle, che un giorno, i primi di Giugno, picchiava così forte in spiaggia, da scottarmi tutta la schiena e non farmi dormire per una settimana.
Mi manca l'odore di pane che si sentiva sulla strada di casa mia la mattina, e salutare il meccanico, la farmacista, il fruttarolo, la parrucchiera e le commesse che aprivano il negozio quando io andavo a lezione.
Mi mancano i portoni colorati delle case.

Mi mancano i vecchietti terribili del piano di sotto, che una volta ci fecero pulire quattro rampe di scale per capriccio e un'altra ancora ci chiesero di andare a casa loro a vedere i festeggiamenti per le elezioni.
Mi mancano le serate al pub irlandese, a cantare al karaoke insieme a un mucchio di signori inglesi di mezza età, con le guance rosse di birra e di natura.
Mi manca la brezza del mare quando passeggiavo per Sliema e San Julien, che faceva ondeggiare i luzzu e ci spruzzava tutti di acqua.
Mi mancano i miei amici maltesi, il loro calore, la loro meraviglia per noi che avevamo lasciato tutto e tutti per un anno e che quindi volevano essere un po' la nostra famiglia in quell'isola.
Mi mancano i loro sorrisi a lezione, il fatto che si sedessero vicino a me, anche senza grandi chiacchiere, per dirmi "sì, sono qui con te, e non devi sentirti sola solo perché questa non è casa tua, puoi contare su di me".
Mi mancano le tende di lino bianco della grande casa in cui ho vissuto, i quadri colorati alle pareti, i cestini del bucato rosa schocking per i bianchi e verde fluorescente per i colorati, l'insalatiera gigantesca che abbiamo comprato dopo aver rotto quella in ceramica di Zara che era nella credenza.
Mi manca vedere il sole entrare dalla finestra del salone, proprio sul grande divano a L viola, quella luce calda e torbida del pomeriggio che ci faceva compagnia, soprattutto l'ultimo mese, mentre studiavamo per gli esami.
Mi manca il barboncino del palazzo di fronte, che tutte le mattine aveva imparato ad aspettare che mi affacciassi dalla finestra per ritirare o stendere i panni, seduto sul tavolo del terrazzo dei suoi padroni.
Mi mancano i professori, il campus, i tavoli da pic nic su cui studiavamo, immersi nel verde.
Mi manca la sensazione che essere un anglista è un grande onore, l'incoraggiamento a non mollare perché le possibilità sono infinite.
Mi mancano i corsi su Pynchon, i monografici sugli autori elisabettiani, su Don DeLillo e l'entusiasmo dei professori che ci invitavano a prendere un caffé tutti insieme o che mi consigliavano un libro o un altro, perché mi vedevano leggere un autore che apprezzavano.
Mi mancano i pastizzi, il cous cous, il sushi del Wagamame di San Julien, e cucinare per Tegolino, ogni cosa a tutte le ore.
Mi manca vivere con Tegolino, la nostra routine, lamentarmi perché devo lavargli il kimono e sudare sette camice per stirarlo, vederlo infilato nel copripiumino per infilarci il piumone, guardare Dr.House mentre ceniamo, preparargli la pizza e mettere l'impasto davanti la stufetta elettrica per farlo lievitare, addormentarmi e svegliarmi con lui di fianco, sorridergli appena sveglia e addormentarmi accoccolata a lui.
Mi manca camminare di notte da Gzira a San Gwann, nel silenzio e nel buio, passare per il campus, e poi per la lunga stradina tra i fichi d'india e le villette di campagna che ci portava direttamente a casa, e guardare quel cielo infinito che sembrava schiacciarti, trapuntato di stelle.
Mi mancano tante cose...ma non le scriverò tutte, perché voglio raccontarvele con calma.
Però mi mancano, e avevo voglia di dirvelo.

Nostalgicamente vostra,
G

mercoledì 18 febbraio 2015

Il fantasma del S.Valentino passato

Anche se un po' in ritardo, volevo ricollegarmi al tradizionale filone dei blogger riguardante San Valentino.
Parliamone.
La data di per sé non mi hai mai interessata granché, un po' perché sono la tipica persona che si profonde in dimostrazioni di affetto e in regali (specialmente fatti a mano) piuttosto spesso, un po' perché i miei San ValentinI passati sono sempre stati un po' picareschi (e anche un po' deprimenti, a dirla tutta).
Ecco una rassegna dei più esemplificativi.
1. Avevo circa 17 anni ed un migliore amico, Franz, dall'età di cinque. Vivevamo nello stesso condominio, io al secondo piano e lui al quinto, roba che Joey e Dawson non erano niente in confronto. Eravamo inseparabili; con noi, a completare il trio, c'era Nano (a dispetto del suo nome, era alto una quaresima). Io ovviamente ero la classica amica saggia e comprensiva, un po' mamma chioccia, e loro i ragazzacci scapestrati dalle mille storielle, che mi tenevo sotto l'ala protettrice. Fatto sta che in un memorabile capodanno alla Centrovetrine, Franz rivela a me e al mondo che si era appena preso una batosta per la tipa con cui Nano aveva avuto una storia di un bel po'. Fa tutto strano dirlo così, perché la cosa va ridimensionata ai canoni dei diciottenni, stile Beverly Hills, ma all'epoca fu un grande scandalo. Nano e Franz non hanno mai discusso, ma quel capodanno mi ricordo che il secondo rischiò seriamente le legnate non tanto nanesche del Nano. Io ovviamente facevo da paciere, più o meno la nutrice di Romeo e Giulietta, e fui costretta ad un periodo di "o-passi-il-tempo-con-me-o-con-lui", manco fosse un triangolo amoroso. Insomma, a San Valentino, Franz mi chiede con i suoi occhi da Beagle di accompagnarlo a scegliere un boquet per la tipa. Io acconsento. Lui lo compra, e con la stessa espressione da Gremlin buono mi chiede di accompagnarlo fino a casa sua. "E io che faccio?! Ti aspetto?!", gli dico, sarcastica; e lui, angelico e scodinzolante, mi fa "Sì, ti prego". Avevo diciassettanni e il cuore troppo tenero.
Ecco, passai quel San Valentino a bere un cappuccino nel bar sotto casa della tipa. Mi trovarono così le mie compagne di classe, che per caso si erano fermate al bar per un caffé: io, il cappuccino e l'autocommiserazione perché il ragazzo che mi piaceva non mi filava nemmeno in cartolina. Il fatto che non ci fossimo particolarmente simpatiche ma che ci ritrovammo tutte a chiacchierare al bar, confidandoci a vicenda sul genere maschile, la dice lunga.

2. Ero cotta e stracotta di lui, F.. L'avevo conosciuto poco prima dell'episodio sopracitato, una sera in pizzeria. Era bellissimo, biondo, occhi verdi, barba e capello lungo, da artista squattrinato-ma-affascinante-e-sessantottino-convinto. Il ben nutrito gruppo di ragazze che uscivano con me, Nano, Franz era tutto intorno a lui, pigolando per un briciolo della sua attenzione. Ma lui no, niente, aveva occhi solo per me, che quel giorno ero uscita controvoglia, con la coda di cavallo, un maglione extralarge e delle occhiaie spaventose. Compiaciuta che ignorasse le altre, ci parlai tutta la sera, e ci stupivamo a vicenda dei mille interessi dell'altro. Insomma, a fine serata, volevo già inviare le partecipazioni di nozze (e non era assolutamente da me). Probabilemente a diciassette anni chiunque ti parli di astronomia o di ecologia, invece che di calcio e di moto, ti sembra il principe azzurro. Per me lo era, comunque.
Diventammo inseparabili; uscivamo in gruppo e poi mi rapiva per portarmi a fare passeggiate da soli, nel silenzio del centro storico della mia città, e parlavamo, parlavamo, parlavamo. Tutti si aspettavano il grande scoop a breve.
Lo scoop non arrivò. Passò un anno e io e F. non facevamo progressi. Quel S. Valentino non mi aspettavo assolutamente nulla da lui, ma mi chiese di uscire. Io ero già tra i puttini a cantare gli inni, e lui non scoraggiò quel mio tipo di stato d'animo. Facemmo una delle nostre lunghe passeggiate e io ero lì lì per sbrodolarmi in una dichiarazione con tanto di violini e petali di rosa...al diavolo la cavalleria! 
Quando sto per aprire bocca, su una delle scalinate del centro storico, lui si gira, mi guarda e mi fa: "Ti voglio troppo bene per rovinare tutto. Non mi interessa avere una storia, mi piace stare con te". Per la sorpresa (gli ingranaggi del mio cervello schizzavano a mille per riprocessare le informazioni) non mi accorgo che c'è ancora uno scalino davanti a me, e ruzzolo giù. 
Dopo essermi scorticata come una prugna, scoppiai in lacrime, ciliegina sulla torta. Lui, fortunatamente lo scambiò per il dolore della caduta, mi riaccompagnò a casa, e io passai il resto del S.Valentino a fare l'analisi grammaticale, logica, morfemica e morfologica delle sue frasi.
Ora siamo amici, ma all'epoca mi parve una gran fregatura.

3. Lasciatami con tipoX (per un ripasso qui), incontro per la prima volta Andrew, un mio amico di penna del Montana, con cui mi ero scambiata mail dall'età di sedici anni. Dopo cinque anni finalmente ci saremmo visti. Lo incontrai con una mia amica nella città eterna, perché era lì per una specie di Interrail con il suo professore di Architettura e dei compagni di corso. Ci demmo appuntamento al Pantheon; io avevo il cuore in gola, la mia amica mi stuzzicava a non finire, e non sapevo proprio che aspettarmi, soprattutto visto l'ostacolo linguistico, che al primo anno di università rappresentava una certa incognita per una timida cronica come me.
Lui era bellissimo, il tipico surfista californiano (ma trapiantato in Montana) sorridente e scarmigliato. Parlammo e camminammo per più di tre ore, con la mia amica che ci ignorava bellamente per tutto il tempo. Lui era tutto capelli biondi, cortesia e sorrisi a trentadue denti, e io ero tutta lentiggini, guance rosse e balbettio. Sembrava come parlare con qualcuno che ti è vissuto accanto per una vita, ricordava tutto e tutti, episodi, persone o cose che avevo citato in quegli anni di corrispondenza, e ci indondavamo di domande ben consapevoli di avere solo una sera a nostra disposizione.
Mi parlò della sua on-and-off relationship con la sua girlfriend, mi chiese della mia e scosse la testa quando gli raccontai a grandi linee che cosa era successo con tipoX. Quando, con il suo forte accento, mi disse "If you ever come to visit me, I will let you dry my truck. I never let anyone drive my truck. Not even my sister, or my girlfriend. So...you should really think about visiting me. That'd be awesome", un sorriso enorme sul viso e l'espressione speranzosa, io mi sciolsi come una granita al sole.  "I'd love to, I'm flattered", dico io, e intanto comincio a pensare "oh, portami con te, Rhett!".
Insomma, torno a casa col cuore gonfio, ancor più perché lui mi scrive una mail dicendo che è stato il suo più bel pomeriggio italiano, e penso che mi sarebbe piaciuto restare con lui a chiacchierare e a incassare complimenti, più di quanto sia lecito per una che vive dall'altra parte dell'oceano rispetto al tipo in questione.
Un mese dopo, a San Valentino, dopo esserci contattati e contattati, lui mi dice che è "in love!". Io vado in iperventilazione, finché non mi dice che "Suzie" ha accettato di uscire con lui. Proprio il caso di dirlo, American G-Golo.

Tutto questo per dire che probabilmente quello appena passato è stato il S.Valentino più normale e tenero della mia vita. Una cenetta con Tegolino e una passeggiata insieme, come una coppia tradizionale (anche se noi di tradizionale abbiamo ben poco...ma questa è un'altra storia!).
La normalità è sottovalutata!

Loquacemente vostra, vi abbraccio,
G

venerdì 6 febbraio 2015

Quando tutto e quando niente

Rieccomi qui. E' proprio vero quello che diceva Pirandello, "la vita o si vive o si scrive". Quando sparisco è proprio per questo, sono impegnatissima a vivere la mia vita, che ogni tanto si diverte a premere il tasto dell'acceleratore x12 e va a mille.
Vi riassumo le ultime novità:
-Domenica sono stata a teatro con Tegolino (che ultimamente ha ripreso il jiujitsu, quindi è ancora più tegolinoso). Ho visto Il Mercante di Venezia, con Giorgio Albertazzi nella parte di Shylock. Lui è stato, ovviamente, superbo. Uno Shylock vendicativo e sopra le righe, con un'umanità sfacciatamente in bella vista e nonostante tutto ignorata dagli altri personaggi. Superbo.
Franco Castellano ha dato un'impronta molto personale al proprio Antonio, sofferto, genuino e intenso.
Una menzione speciale per Cristina Chinaglia nei panni di Lancillotto (Giobbino), che ha saputo conquistarsi il favore del pubblico non perché personaggio povero e bistrattato, ma perché il suo fool da Commedia dell'Arte e la sua sticomachia in dialetto veneziano hanno davvero arricchito lo spettacolo. Lei ed Albertazzi sono gli unici che hanno saputo, a mio parere, rispettare il carattere di dark comedy che Shakespeare aveva in mente per Il Mercante
Per tutti gli altri attori, giovani, pedanteschi, la sufficienza non c'è (ho apprezzato solo Ivana Lotito, nella parte di Jessica). E nemmeno per la regia. Non solo una dizione perfetta dei primi, da Tom Tom, per intenderci, che rovinava l'effetto di realtà degli altri attori veterani, ma luci e musiche che sconfinavano nell'ambient commerciale. E poi i tagli, che normalmente sono necessari, in questo caso insensati. Rimaneggiamenti di un sarto cieco che hanno dato alla commedia un finale non solo incomprensibile ma anche affrettato e del tutto inverosimile.
Alla fine, ho avuto la faccia di bronzo di bussare al camerino del Maestro e di ringraziarlo per lo spettacolo. Abbiamo parlato qualche minuto e ho scoperto che oltre il grande attore c'è un grande uomo, un 91enne gentile, sorridente ed amichevole che ci ha ringraziati per essere così giovani eppure così interessati al teatro. E' stato davvero un onore conoscerlo.
-Lunedì conferenza in uni con il grande Roberto Herlitzka, altro interprete shakespeariano, di cui voglio segnalarvi l'Ex Amleto: il Maestro ha portato in scena un'intera tragedia da solo, in un unico instancabile e vivido monologo. E' interessante il suo punto di vista (non del tutto condivisibile da noi anglisti), secondo cui Amleto non è un personaggio da interpretare, ma un uomo da capire. Altra interpretazione notevole è il suo King Lear, in cui è riuscito a mostrare, complice la vivida mimica facciale e fisica che lo contraddistingue, la parabola discendente di Lear, da uomo di ferro a vecchio disilluso e infantilizzato dalle circostanze.
-Ieri ho iniziato a lavorare in una scuola elementare. Tramite un'associazione che organizza corsi di inglese per l'esame Trinity (sapete cos'è? Lo avete mai fatto?), sono diventata "Maestra G" ("Maè" o "Teacher", all'occorrenza). Ho tenuto le prime due ore ieri pomeriggio. La cosa simpatica è che, dopo un colloquio di 15 minuti, mi sono ritrovata davanti ai loro visetti con un gessetto in mano a farli chiacchierare in inglese, mentre pensavo, con una certa nota di panico, che io ho solo 24 anni e quando mi chiedono di andare al bagno ho il terrore che non tornino, che al loro How old are you? ho risposto Twenty-four e loro hanno urlato che No, non è possibile, ci stai prendendo in giro! Ne hai diciotto!, che devo parlare con i genitori che non riescono a fare a meno di guardare il mio metro e cinquantasette, con l'aria sbigottita di chi vede che suo figlio di dieci anni mi arriva già alla spalla. Eppure mi piace e sono contenta.
Spero che arrivino tutti sani e salvi a Giugno. Soprattutto io. Ho visto un paio di papà abbastanza nerboruti e in forze, ieri.
-Mia madre si è affettata un dito. Una scena che nemmeno Dr. House. Sangue dappertutto e io, come al solito (non è assolutamente nuova a certi incidenti), a disinfettare e a lottare per non vomitare anche l'anima (stavolta si è davvero impegnata, il polpastrello le si è diviso in due). Il responsabile della tragedia è il coso che vi ho postato in alto.

Buon fine settimana, domani finalmente un po' di riposo! Pub e cinemino non impegnativo con Tegolino (vedremo Jupiter, ho un debole per lo sci-fi e il distopico)!
Vi abbraccio tutti e vi lascio con Herlitzka.
G