sabato 29 novembre 2014

Le ultime lettere di Gìacopo Ortis


Questa settimana intensissima è trascorsa alla velocità della luce. E quando le cose trascorrono alla velocità della luce, anche la mia testa monta su un carosello che assomiglia più ad una centrifuga.
Ieri stavo viaggiando sull'autobus di ritorno dall'università. E si sa che le migliori riflessioni nascono mentre il paesaggio  ci scorre sotto gli occhi. 
Ho passato l'intero viaggio a rispondere ai miei amici su quello strumento di tortura noto al genere umano come Whattsup. Dopo la fine dell'Erasmus, ho avuto appena il tempo di rimettere piede in patria che il mio cellulare risalente al paleozoico è deceduto. Mio papà, informatico fino al midollo, ha avuto la brillante idea di regalarmi lo smartphone. Ed eccoci qui. 
Mentre mi districavo in 5 conversazioni diverse allo stesso tempo, pensavo alle persone con cui stavo parlando. Tegolino, papà Telesforo, il mio amico Gigante, la mia amica Gnappetta e l'altra, Lenticchia. Ecco. Gnappetta e Lenticchia a parte, che abitano ad una considerevole distanza da me e che vedo solo dopo accurate strategie di pianificazione manco fossimo la NATO, mi sono resa conto che parlavo incessantemente con persone che vedo quasi tutti i giorni. E ho pensato: e se fossi nata 30 anni fa? Quando non esistevano cellulari, chat, Facebook o altre porcherie tecnologiche?
Come sarebbe stato il nostro rapporto? Più autentico? Più vero? Ci sarebbero stati meno filtri? Ci sarebbe stata quell'urgenza famelica di mettersi a nudo e raccontarsi tutto, che era tipica della generazione di mio padre, di Pier Paolo Pasolini, che nelle sue lettere mostrava un desiderio quasi patologico di mettersi in contatto con i suoi amici?
Sto leggendo la biografia di quest'uomo meraviglioso, e mi sono resa conto che io non scriverò mai lettere appassionate ai miei amici, raccontandogli di me, delle mie emozioni, bramando un momento della loro attenzione o una risposta da attendere nella cassetta delle lettere.
Per quanto si possa dire che la mia vita è, da brava letterata e medievista, decisamente all'insegna dell'anacronismo più assoluto, e della continua ricerca di contatto umano vero, autentico con i miei amici (leggendarie, ormai, le chiacchierate-fiume con Gnappetta o il Gigante), è altrettanto vero che per necessità e forse pigrizia ormai alcune forme di comunicazione sono visceralmente entrate a far parte della mia vita. Aborro Facebook, aborro le chat, ma uso il cellulare più di quello che vorrei.
Ed è strano che l'unico modo che ho di tornare a quella forma di comunicazione pasoliniana che tanto ammiro è tramite una rete wi-fi e un blog.
E parlo a voi, che siete gli unici che non vedo e forse non vedrò mai, a cui racconto di una vita lontana e sconosciuta, in un modo però che mi sembra comunque più genuino...più vero di qualsiasi messaggio scritto al volo da un telefono cellulare.

mercoledì 12 novembre 2014

Prospettive di vita

Ormai è un po' che non faccio altro che rimuginare sul futuro. Mi capita di chiudere gli occhi e di provare ad immaginare a cosa mi porterà tutto questo caos che è la mia vita universitaria (e non).

Nero.

Vedo proprio il buio. Ma non proprio in senso negativo. Non riesco ad immaginarlo, proprio no. Eppure le idee le ho abbastanza chiare. A cosa servirebbe accanirsi così tanto, sennò?

Versi e versi chauceriani tradotti, pagine e pagine di manoscritti ingialliti, Shakespeare, i Tudors, i morality plays... la mia vita la vivo così, con un piede nella letteratura medievale inglese e l'altro nella realtà di oggi, facendo il giocoliere e bilanciando tutto, il babbo disoccupato Telesforo, la mamma Dafne, Tegolino, il mio più grande amore a 4 zampe, le ripetizioni, i lavoretti occasionali, gli amici...

...poi ogni tanto mi prende la tristezza, perché in questo paese non c'è spazio per noi. Per noi anglisti, per noi medievisti, per noi studenti, per noi che guardiamo al futuro e speriamo di poterlo impastare come vorremmo, come sarebbe più giusto per noi e per tutti. E un po' mi prende anche il panico, perché so che io potrò andare via, forse, e continuare a studiare, a fare ricerca, magari perfino lavorare, in questo ambito così polveroso, fatto di cavalieri, re, regine, attori, versi e rime... ma mio padre, a cui un cuore fragile ha compromesso un impiego, che nonostante un'esperienza trentennale in un settore come l'informatica è considerato troppo vecchio, troppo preparato...semplicemente troppo.

E io penso che mio padre troppo non lo è. Lui è solo il mio papà, che ha sempre dato tanto perché io potessi vivere tutto questo e che si illumina di gioia quando gli sparo i miei soliti sermoni sul perché la poesia di John Donne è superba, mentre quella di Milton non mi piace.

E mi prende il panico perché, se me ne vado, chi si prenderà cura di lui, di loro, se non io?

giovedì 6 novembre 2014

Memorie di un Erasmus distratto #3 Welcome to Malta

Al ritiro bagagli, dopo l'atterraggio alla Lost, ebbi un primo assaggio del mio fantozziano e avventuroso futuro soggiorno maltese. Gli altri passeggeri, compresi i miei compagni di viaggio, facevano i fighi con le valigie belle che arrivate. Della mia, manco a dirlo, nemmeno l'ombra.
Il rullo continuava a girare, a girare, a girare e io lì, ad aspettare, aspettare, aspettare... Già mi immaginavo la scena, a dover arrivare a casa con solo il bagaglio a mano, dove, non so per quale logica, avevo messo due pigiami, le ciabatte e mezzo chilo di biancheria intima. 
"Certo le mutande non mi mancheranno!", pensavo, mentre fissavo il rullo in attesa del mio valigione rosa. Sì, rosa. Ma rosa Bigbabol, per capirci. L'idea era stata di mia mamma, affinché potessi riconoscere il mio bagaglio tra tanti. Eppure non avevo potuto testare la cosa, visto che il rullo era vuoto come il deserto del Gobi: alla fine andò a finire che ben 1 h dopo, il mio trolley gigantesco mosse i suoi primi passi in terra maltese. Lo avevano semplicemente dimenticato. 

La ricerca del taxi fu semplice, abituarsi alla guida tutt'altra cosa. Puoi essere preparato in mille modi sulle consuetudini di un paese straniero: ma niente potrà mai prepararti al colpo al cuore quando un taxi con la guida a sinistra prende una rotatoria al contrario a 90 km/h.
Ho pensato di morire seriamente, fino a che non siamo arrivati sotto casa, in un quartiere residenziale e un po' vecchiotto di un paesino chiamato San Gwann. Vorrei farvi notare che l'esatta pronuncia era 'San Giuàn'. Erano circa 20 minuti che parlavamo col tassista, insistendo nel dire 'San Guàn'. 

C'è da dire che preferimmo affittare un appartamento, piuttosto che andare nello studentato. I motivi erano svariati, dalla maggiore indipendenza, al fatto che lo studentato era un po' fuori mano. E forse io fui influenzata anche dalla presenza di P., che da oggi in poi chiameremo Tegolino, e dalla prospettiva di vivere sotto lo stesso tetto, dopo mesi di treni, metro, webcam.
Finalmente giunti a casa, ci siamo presentati a Simon, il nostro padrone di casa: ci aspettavamo di trovare un teutonico impiegato dell'università di Malta in giacca e cravatta (così come si era presentato mesi prima nel nostro scambio di mail); trovammo, invece, un piccoletto dall'aria trasognata e dagli occhioni blu, in calzoncini e infradito, che rideva ogni tre per due e che, lo capimmo dal modo in cui ci mostrò casa e il quartiere, non aveva la più pallida idea di quello che stava facendo. Ci congedò con un sorriso e con qualche allusione alla bellezza di Tegolino e F. e noi rimanemmo soli.
Sbrigate le questioni pratiche come fare la spesa e dividerci le stanze (a me e Tegolino toccò, di logica, la matrimoniale), finalmente trovammo il tempo di guardarci bene intorno. E fu uno shock. 
La casa era stupenda, ma era il corrispettivo maltese della casa del GF che incontra la Casa di Sam Raimi. Due esempi per il tutto: dopo un'ora e mezza di olio di gomito, scoprimmo che una padella che era in cucina era rossa, non nera. E che la tavoletta del bagno non era beige. Ma bianca.
Io ero inviperita. Mi sentivo defraudata, insultata, ingannata: ma come, pensavo, quest'isola è inglese, dovrebbero essere tutti precisi come Mary Poppins, e invece mi ritrovo come Schiava Isaura al servizio del Reame della Pulizia?!

Insomma, le nostre prime ore maltesi passarono così, tra un disinfettante e un piumino da spolvero. Mi fa sorridere pensando al fatto che nessuno di noi pensò alla soluzione più ovvia: chiamare il proprietario e fargli un cazziatone da record, di quelli che forse solo gli italiani sanno fare. E invece no, passammo ben 5 ore a bonificare la casa da ogni possibile traccia di sporco, germi e sozzura, finché a cena non ci ritrovammo intorno al tavolo della sala a mangiare un hot dog e a cercare di non addormentarci sui piatti pieni di ketchup. 

Chiamai i miei al telefono, temendo che se li avessi visti in cam sarei scoppiata in lacrime e li avrei supplicati di riportarmi a casa, ma solo dopo avermi messa in quarantena per 30 giorni.
Quando poi mi misi a letto con Tegolino, ci guardammo negli occhi. La luce era soffusa, si vedeva la luna dalla grande finestra. Lui era bellissimo, io indossavo il mio pigiama più fronzoleggiante e trasparente, ed era la prima volta che dormivo con il mio ragazzo. E anche la prima in cui fossimo così in intimità. Ci stringemmo forte, spegnemmo la luce...
...e un attimo dopo eravamo già a lì a russare come motoseghe

Welcome to Malta, diceva il cartello all'areoporto. You wish, pensai prima di addormentarmi.