domenica 24 settembre 2017

Quello che resta


Quello che resta di tanti mesi passati sotto silenzio è un bel quantitativo di cicatrici che non riesco ad ignorare del tutto. Una botta la superi, prima o poi. Due, a distanza di poco, quasi speculari... è jella.

Qualcuno, che mi vuole un gran bene, mi ha detto che non è facile.
"Io non chiedo nulla, non chiedo la luna!", ho sussurrato io, e lui mi ha detto "Sono proprio le persone come te, che non chiedono nulla, a fare più paura. È il non chiedere nulla che ti rende grande."

Sarà. Io mi sento un grande disastro, al momento.

venerdì 15 settembre 2017

Spesso è il corpo e non il cuore



Spesso è il corpo e non il cuore a ricordare meglio.
Ultimamente mi ha sotto scacco.
E' lui a ricordarsi le braccia morbide di mia nonna, quel collo rugoso e la pelle sempre fredda, l'odore della crema Nivea sulle mani, che ci appiccicava un po' sul viso quando ci accarezzava le guance. La sensazione della sua guancia floscia sulla mia piena, così rassicurante. 
Sempre lui che la mattina si gira nel letto e istintivamente dà la schiena a quella parte ormai vuota, in attesa di sentire le sue braccia ancora calde di sonno che ti stringono. Il formicolio della barba sulla pelle, i muscoli che si tendono. Le mani che cercano qualcosa che non c'è, per aprirsi a stella e sentire che sì, sei ancora qui, non sei a lavoro, è ancora presto, dormiamo.
Lui mi ricorda il contrasto tra la mia pelle morbida e gli scogli porosi di Sliema, caldi e ruvidi di salsedine, e quella sensazione di pace quando ho chiuso gli occhi al sole e tutto è diventato bianco dietro le palpebre chiuse. Come sentiva che tutto era al posto giusto, il mondo pieno di promesse, vicina la sera in cui i liquori maltesi mi avrebbero bruciato la gola .
Ma ora gli sto insegnando a stare in pace. Un esercizio di pazienza, di tranquillità, per fare tutto con lentezza, misurare i gesti, assaporare i biscotti la mattina, poggiare bene il piede mentre corro e regolare il respiro.
Correre mi sta aiutando a vivere. Imparo a respirare, a scandire le falcate, riesco persino a calcolare approssimativamente quanti minuti posso ancora correre prima di sentire il respiro pesante. 
Questo sto insegnando al mio corpo, e alla mente. Ascoltati. Godi di ogni secondo. Non correre. Frena le sinapsi.
Respira.
Vivi piano, finché puoi.
Piano.
Respira.

lunedì 11 settembre 2017

Lettera a G diciottenne



Cara G,

ho pensato di scriverti questa lettera dal futuro, in un momento in cui mi piacerebbe avere qui la te di ora, quasi dieci anni più giovane, e darle qualche consiglio come si fa con le sorelle minori. 
Adesso hai ancora i capelli lunghi fino alla vita, quei boccoli un po' indecisi come te, e il corpo più slanciato e con qualche curva in meno, e non sai ancora bene che farci.
Ti piace la matematica, un po' meno biologia, e pensi ancora che vorresti studiare astrofisica. Stai mettendo qualcosa da parte per comprarti un telescopio, e non riesci a fare a meno di sentirti sempre un po' fuori posto, con quel naso sempre troppo in giù, sui libri, o in su, a fissare il cielo e fare pensieri troppo grandi e troppo lunghi per te.
Vorrei fossi più serena, più libera, che ti sentissi meno sola e che ricordassi che, a volte, essere un po' folli fa bene. Che c'è del buono anche nelle persone di cui non parli bene la lingua e di cui non comprendi come facciano ad amare il Grande Fratello o i libri di Nicholas Sparks. Vorrei ricordassi che tutti hanno qualcosa da insegnarci, e che alla tua età bisogna saper stare con tutti, non solo con se stessi.
Ricordati che mamma ti vuole bene, anche se non te lo riesce a dimostrare, chiusa in quella torre di vetro, lontana e irraggiungibile a te e a papà. Lo so che con quel corpo non sai bene come ci si muove, che nessuno è lì con te ad insegnarti come essere una donna, e che TipoX ti chiede di fare passi che non sei pronta a fare. Ecco, vorrei dirti che fai bene ad essere gelosa del tuo corpo e delle tue emozioni. Conservale per chi, un giorno penserai, meriterà di rubartele un po'. E hai fatto bene ad aspettarlo.
Non piangere quando anche quello non durerà. Non piangere perché la Germania ti ruba la felicità e nemmeno quando capirai che non è stata colpa della Germania. 
Scoprirai che il cuore puoi donarlo ancora, stavolta come una donna, che inizierai a pensare in grande, a rinchiudere il tuo cuore tra le mura di una casa con i gerani rossi sul balcone, con un cane, nel caos di una città che diventerà lo sfondo di una vita nuova, da dividere in due, scandita da riti.
Piangerai e soffrirai tanto, quando il cuore ti si spezzerà di nuovo, e stavolta sarai una donna. Ti sentirai ancora più persa e smarrita. Penserai che non valga la pena, che in fondo la tua vita sta bene così com'è, con i tuoi impegni, il ritmo scandito dai tuoi respiri e da quei piccoli, grandi gesti che ti sembreranno conquiste inimmaginabili: girare per la grande città da sola, senza una meta, o non perderti quando dovrai andare a fare un colloquio di lavoro in un posto nuovo, o andare al cinema da sola, o, soprattutto, quando starai per iniziare il dottorato e cominceranno a pioverti dal cielo mille opportunità.
Eh sì, alla fine, a 26 anni, non stai lavorando all'MIT. Non sei un'astrofisica specializzata nell'espansione dell'universo e nello studio del red shift, tuttaltro. Hai vinto una borsa di dottorato e ti sei perdutamente innamorata di Christopher Marlowe e di William Shakespeare. Stai pubblicando articoli negli Stati Uniti e ti ritrovi un po' di qua e un po' di là a parlare a qualche convegno. Sì, proprio tu che diventavi rossa solo a dover essere interrogata davanti a tutta la classe. Proprio tu che volevi osservare il cielo e farne la tua vita, ora ti perdi nell'infinita risonanza di una parola. Proprio tu che hai sempre avuto paura dei cambiamenti, ora sei a un passo dall'inizio di una nuova vita, con il cuore un po' rotto e tante speranze, tanta voglia di immergerti in un cielo diverso e farne un assoluto, finché non sentirai che è il momento di rispostare lo sguardo anche al di fuori di te.
Sorridi sempre. Anche se ora soffri perché vorresti una vita piena di avventure, pazienta. Arriverà Malta, arriveranno gli amori, arriverà Tequila e diventerà tua sorella, arriveranno i viaggi con lei, la vostra amicizia itinerante Nord-Sud che si consumerà su treni, Whatsapp, weekend toccata e fuga e chiacchierate a cuore aperto alle tre del mattino su uno scoglio, il mare che scroscia e un Margarita di troppo. Arriverà questo momento, appena compiuti i 26 anni, in cui sarai sul margine di un precipizio, e ti sentirai spaventata ed eccitata allo stesso tempo. 
Ma io voglio che tu tenga sempre a mente che saltare fa paura, ma tu ne sei in grado. Non pensare mai di non avere ali abbastanza forti. Anche se te le sei fatta da sola e non sai bene se hai avanzato qualche vite, tu buttati. Ti sorprenderai di quante cose puoi fare e quanto lontano puoi andare.
E magari adesso ti suono come una matusa. Magari pensi che la tua te ventiseienne è una gran rompiballe.
Ma se ti consola, la me di ora già pensa che se fra dieci anni si riscriverà una lettera, ci scriverà gli stessi identici consigli.

Con amore,

la tua te, dieci anni dopo.

venerdì 19 maggio 2017

Ogni tanto mi colpiscono delle consapevolezze.
Che non mi piace il gelato. Solo il frozen yogurt.
Che odio i clown e non amo particolarmente farmi tovcare i capelli.

Oggi la consapevolezza che mi ha presa dritta in fronte, come una doccia gelata, è che tra quattro giorni mi laureo.

E non sono assolutamente pornta!

mercoledì 3 maggio 2017

Dimmi che hai nella borsa e ti dirò chi sei



Dimmi che hai nella borsa e ti dirò chi sei.
Ci ho pensato oggi mentre ero sul solito regionale per andare a lavoro.
Di solito quando salgo sul treno ho i miei posti tattici, li punto come un giaguaro punta la preda, ma non sempre li becco.
Oggi, per esempio, sono capitata nei sedili da quattro con il tavolino. Di fianco a me un militare, di fronte una ragazza della mia età e un ragazzo sulla trentina. 
Ad un certo punto faccio per prendere la colazione e il mio kit di sopravvivenza per il viaggio dallo zaino. Solo che ho dovuto tirare fuori tutto il resto per arrivarci. In sequenza: il faldone con i registri e i compiti dei ragazzi, i libri, il cd per il listening, una molletta, tre pacchetti di fazzoletti ancora chiusi, il panino con il tonno per il pranzo, salviette igienizzanti, colluttorio e spazzolino, astuccio, caramelle alla menta nella scatola di latta, i Racconti londinesi di Doris Lessing e The Sense of an Ending di Julian Barnes. 
Finalmente, tiro fuori il mio cornetto Misura all'albicocca, il succo alla pera, le cuffiette e i fazzolettini per il perenne starnuto ambulante che sono diventata per colpa della primavera, vergognandomi come una ladra perché tutti hanno visto lo spazzolino con la custodia a forma di mucca e il colluttorio.
I ragazzi di fronte mi osservano curiosi.

Una mezz'ora dopo, vedo che lui tira fuori: Bukowski, un paio di guanti di lattice, l'ombrello e il tabacco, perché non trovava le chiavi di non so cosa. Lei, invece, a borsa spalancata per tutti quelli che, come me, volevano farsi i suoi affari, esibiva una palette da minimo 20 ombretti della Pupa, due rossetti, uno specchio, una spazzola, un paio di calze ancora impacchettate e, infine, l'ipod.

Ecco, lì ho capito quanto si può capire di qualcuno dal contenuto della sua borsa.
Di sicuro hanno capito che sono una maniaca ossessivo-compulsiva.

giovedì 27 aprile 2017

A volte un dejà-vu fa bene al cuore


Il momento in cui capisci di essere entrato nell'età adulta è scandito da tanti eventi diversi. La prima volta che guidi una macchina, la laurea, il primo colloquio di lavoro, il primo stipendio, il primo viaggio con le amiche, la prima storia seria, i primi grandi dolori. 
Sulla mia soglia c'è una consapevolezza.
Ho capito che l'amore, adesso, non è fatto quasi più di prime volte. 
C'era il primo bacio, la prima volta che qualcuno ti aspettava davanti scuola, il primo "ti amo", la prima volta che fai l'amore.
Adesso ci sono gesti che abbiamo visto e rivisto tante volte. Alcuni li abbiamo vissuti talmente spesso che non ci meravigliano più. Le uscite con gli amici, il pranzo in famiglia, i viaggi, fare l'amore, raccontarsi del proprio passato, regalare dei fiori, un litigio.
Però ho capito anche che, se siamo abbastanza saggi per capirlo, abbiamo la chiave della felicità in mano e possiamo usarla per aprire la porta.
Non c'è passato che tenga, per quanto simile, per quanto a volte si viva di dejà-vu, dobbiamo concentrarci sulle sensazioni che quei momenti già vissuti ci regalano.
Mangiare la solita pizza o il solito sushi, ma rannicchiarsi a guardare quel film che volevamo tanto vedere, in una bolla che sa di casa; il pranzo in famiglia, ma le risate genuine e, invece di percepirci come due in una tavolata, sentirsi sempre un singolo, uno parte di un noi che è anche parte di un tutto più grande; quei viaggi in cui poi ti rendi conto che le stesse strade danno sensazioni diverse, che questa volta quasi quasi sei tu a dover abbassare il volume e puoi giocare al gioco delle domande quanto vuoi, e che non importa la meta, a volte puoi perderti, senza programmare; svegliarsi la mattina pelle a pelle, caldi e morbidi di sonno, e abbandonarsi alle sensazioni ad occhi chiusi, con pigrizia e dolcemente, rapiti da quel là ed ora, senza passati, senza futuri.
E poi ci sono quelle pennellate nuove, quei tocchi di colore che ti sorprendono e che non devono essere troppi o tanti, ma che se ci sono ti strappano un sorriso in più. Una colazione al letto o un sorriso al momento giusto, e tutto si sedimenta.
La porta si apre da sola, la chiave nemmeno serve.
La chiave serve per mettersela in tasca e ricordarci che c'è, che quello che abbiamo, benché non nuovo, non "primo", a volte simile, è tutto quello che abbiamo e dobbiamo goderne, senza occhi al passato, forse solo occhi al futuro.

martedì 11 aprile 2017

The perks of being a teacher

Sono reduce dai colloqui con i genitori.
Una cosa che non avevo considerato quando ho cominciato a insegnare nella mia scuola.
Avevo messo in conto tempo x per preparare lezioni, tempo infinito per correggere i compiti in classe, le writings e i summary, e tempo incalcolabile per andare e tornare da lavoro ogni giorno.
Ma non avevo messo in conto l'esperienza dei colloqui con i genitori.

Mi sono persino abituata al terrorismo psicologico della vicepreside, un manico di scopa con i capelli a mocho Vileda tinti di un orrido biondo platino; ho anche imparato i nomi di tutto il personale tecnico della scuola, roba che quando entro, la mattina, sembro Cindy Crawford (decisamente più bassa, senza neo e meno gnocca) a una serata di gala. "Buongiorno, signor Eugenio!" (il mio bidello preferito - si può dire bidello? è politically correct?), "Buongiorno, Salvatore!" (il mio collega preferito, a cui insegno inglese una volta a settimana con altri docenti), e le segretarie, e persino il signore che rifornisce le macchinette e mi lascia da parte il biscotto alla farina di riso Scotti al cocco, perché sa che è l'unico senza latte.
Ho imparato persino i nomi di tutti i miei ragazzi, giuro. Anche se ogni tanto scambio ancora Sara con Giulia e Niccolò con Lorenzo. Ma ci lavorerò su.
E ho imparato anche dove sono le aule e dove sono i bagni, e non mi perdo più per cercare la famigerata aula multimediale che sta nell'ala est della scuola, con tanto di rosa che perde i petali e Bestia.
Ormai sono anche rassegnata al fatto che Mocho sembri totalmente impermeabile al concetto che io non lavoro per lei ma per la mia azienda e che quindi non sono a disposizione della scuola e che ogni richiesta deve passare prima per le mie responsabili (che sono, tra parentesi, due sante).

Però ai colloqui non ero psicologicamente pronta. Un po' perché dovevo starci due orette (per il motivo di cui sopra) e invece sono rimasta inchiodata in aula tre ore e mezza, e un po' perché rispetto ai miei tempi sono, come la scuola si vanta di essere in tutto del resto, all'avanguardia.
Ti viene assegnata un'aula (rigorosamente, per noi docenti esterni, quelle del terzo piano che alle 4 del pomeriggio sono arroventate), i genitori controllano sul sito della scuola quale, si fanno il sacrosanto fogliettino e poi vanno fuori da ogni aula a scrivere il nome del figlio sotto il tuo nome per "prenotarsi". Ecco, io ieri avevo 40 prenotati. Praticamente 25 in più della docente dirimpettaia, che ne insegna Chimica. Tiè, becca.

Ma quando dico 40, dico 40 tutti di seguito, roba che non ho potuto né bere né andare in bagno e che la fiumana non si arrestava mai. C'era chi veniva già sapendo che il figlio è bravissimo, chi mi guardava con gli occhi da Beagle per farselo dire, chi non sapeva nemmeno che il figlio avesse preso 5, chi mi saltellava dicendo che il figlio non fa che parlare di quanto la prof sia bella e brava e che si è affezionato, quelli a cui dicevo apertamente che, in caso volessero diseredare il figlio, lo avrei adottato io, e quelli che entravano in aula, si fermava a guardarmi con occhio pallino e mi dicevano "No, mi scusi, io cercavo la professoressa ****". E io "Sono io!" e loro "Ah."
E quel "ah" aveva un'eco infinita, mentre mi sbirciavano di sottecchi durante il colloquio, e fissavano i miei tacchi 12, lo zaino rosa di Decathlon, la penna di Shakespeare e la cover del cellulare tutta colorata non riuscendo bene a capire come si conciliassero tutte queste cose nella figura di una prof di inglese.

Sono uscita dalla scuola come nel mito di Platone. Senza voce, vedevo i draghi, e mi facevano male le mascelle a forza di sorridere.
Mi sono buttata con Guapa, la mia collega di spagnolo, nel bar di fronte alla scuola, malfamatissimo di sera, per un crodino pre-treno e siamo collassate sui sedili dell'autobus come palloncini sgonfiati. 
Stiamo per scendere alla stazione centrale e lei mi fa: "Ma lo sai che mi sa che ho scambiato un genitore per un altro? Pensavo fosse il padre di Lorenzo della IA, ma era di Lorenzo della IIB"
E io: "Invece tu lo sai che io ho parlato 5 minuti del rendimento di un ragazzo e solo quando la madre se ne è andata ho realizzato chi fosse quel ragazzo?".

Ecco, io vi giuro che ci provo a essere bravabellabuona, ma poi ogni tanto ho le mie ricadute.

martedì 28 marzo 2017

Tornare a scrivere di me


Tornare a scrivere non è sempre facile. Ci sono delle condizioni particolari per far sì che io mi metta davanti allo schermo del pc e vi racconti di me. Cose che mi hanno colpito, voglia di parlare, tempo, congiunzioni astrali, ma anche e soprattutto la necessità di fare chiarezza.
Non sono il tipo che scrive quando non ha nulla da dire. O quando non ho le idee chiare su ciò che voglio davvero dire. Ed è per questo che tutti questi mesi sono passati sotto silenzio.
Lo so che di cose, a ripensarci, me ne sono successe a valanghe e penso che siate i primi con cui avevo voglia di condividerle. Però c'era sempre poco tempo per farlo, poco ordine nei miei pensieri per farlo e anche un po' di paura nell'esporle, nel ricominciare a scrivere in un posto che è sempre stato aperto a tutti. Capiscite a me, insomma.
Il mio periodo zen credo si sia appena concluso; è durato circa un anno, tra alti e bassi, ma mi ha dato tempo per rivedere tanti e tanti aspetti della mia vita che in un modo o nell'altro sono sempre rimasti insoluti. E anche per buttarmi a capofitto nelle nuove avventure che mi hanno assorbita in questi lunghi mesi.
La prima, sicuramente, è stata il mio nuovo lavoro, che è arrivato un po' per caso: un conoscente mi mette in contatto con un'azienda ed eccomi paracadutata nel mondo degli insegnanti di lingua non abilitati, che girano un po' per tutta la regione e insegnano in scuole, aziende, centri di formazione e via dicendo. E io mi ritrovo in una bella cittadina sul mare, con circa 100 studenti divisi in 4 classi, a insegnare inglese e latino in inglese. Stare dall'altra parte della cattedra è più difficile di quanto pensassi. Non solo per le responsabilità puramente pratiche e legali (anche se, dopo un anno alle elementari, ogni volta che vanno in bagno ringrazio di non dover temere che mi finiscano nel water), ma perché i miei ragazzi sono degli adolescenti pieni di vita, di bronci e di sogni, e mi devo conquistare tutti i giorni la loro fiducia.
Insegnare per me è diventato questo: comunicare, far capire ai ragazzi che siamo molto più simili di quanto credano, che un insegnante non è necessariamente un cerbero a tre teste ma qualcuno da cui si può trarre ispirazione e che può insegnarti qualcosa ben oltre il present perfect o il first conditional. Sicuramente la poca differenza di età aiuta (ci passiamo poco più di 10 anni), ma per la prima volta mi sento brava in qualcosa senza che nessuno me lo abbia insegnato. I ragazzi si fidano di me, mi seguono, migliorano, chi piano piano e chi a vista d'occhio, e quando i genitori vengono a parlare con me in sala professori mi dicono che tornano a casa e non fanno altro che parlare della prof di inglese che "ci legge Harry Potter, ci fa parlare di noi, guarda le nostre stesse serie tv, va al concerto degli U2! E ce lo dice tutto in inglese!". E poi, loro mi insegnano più di quanto io riesca a dare a loro: i ragazzi di quattordici anni sono libri aperti, la cartina tornasole di te stessa. Capisci se stanno male, se hanno bisogno di ridere, se sono pronti per una lezione più pesante o se quel giorno hanno voglia di parlarti di sé, in quel loro inglese mezzo maccheronico e sgrammaticato che però ti fa rabbrividire e ridere allo stesso tempo. Ma soprattutto tramite loro capisci cosa stai sbagliando e non solo come insegnante. Certo è faticoso, ma è bello capire giorno per giorno come rapportarsi ad ognuno di loro, invece di vederli come un gruppo. Ogni ragazzo ha qualcosa di unico ed è incredibile come sia stimolante e difficile scoprire cosa, giorno per giorno.
E nonostante le tre ore di viaggio, i due treni più un autobus ad andare e altrettanti per tornare, i mille compiti da correggere, le writings, la vicepreside che, come nella migliore delle tradizioni, è un cerbero a otto teste, sento un forte senso di appartenenza a quei ragazzi, un po' come se io fossi una di loro e loro miei. E mi scaldano il cuore ogni volta con i loro piccoli grandi gesti, come portarmi tanti mazzetti di mimosa in un giorno in cui non avrebbero dovuto nemmeno essere a scuola ma dovevano recuperare due ore con me, oppure offrirmi la pizza con la mortadella, i cioccolatini, la macedonia di kiwi e chiedermi consigli su quali romanzi leggere. Mi mancheranno quando non li avrò più.

In tutto questo, tra circa due mesi discuterò la tesi, scritta un po' sul treno, un po' a casa, un po' in giro per la grande città. Sta venendo fuori in un parto lento e doloroso, ma mi ci sto affezionando e credo che alla fine ne sarò davvero felice. Ve ne parlerò, non appena sarà in versione definitiva.
Una cosa molto buffa è che il giorno dopo la discussione dovrò presentare un paper in un convegno dall'altra parte dell'Italia, quindi credo che la proclamazione me la faranno direttamente alla stazione centrale. 

Io sono sempre io, forse un po' più magra, con i capelli un po' più corti, l'aria un po' più stanca, ma sempre io, sempre G. Da una parte, non sono mai stata più G di quanto non lo sia ora; dall'altra, il brusco cambiamento di rotta e accorgersi che al mio mobile Ikea mancavano delle viti mi ha trasformata in un'altra G. Una G 2.0, quella di cui vi parlavo qualche post fa, che più che comunicare con il mondo aveva bisogno di comunicare con se stessa e doveva fare un po' i conti con la propria vita.

Ora che ho capito che anche dopo certe inversioni di rotta 1+1 può tornare a fare 2 spero di essere più presente qui, e anche nei vostri angoli, che mi mancano molto. 

Soprattutto perché vorrei tornare a parlarvi presto di me, e di questo 1, che con me ritorna a fare 2.

Un abbraccio.