martedì 28 marzo 2017

Tornare a scrivere di me


Tornare a scrivere non è sempre facile. Ci sono delle condizioni particolari per far sì che io mi metta davanti allo schermo del pc e vi racconti di me. Cose che mi hanno colpito, voglia di parlare, tempo, congiunzioni astrali, ma anche e soprattutto la necessità di fare chiarezza.
Non sono il tipo che scrive quando non ha nulla da dire. O quando non ho le idee chiare su ciò che voglio davvero dire. Ed è per questo che tutti questi mesi sono passati sotto silenzio.
Lo so che di cose, a ripensarci, me ne sono successe a valanghe e penso che siate i primi con cui avevo voglia di condividerle. Però c'era sempre poco tempo per farlo, poco ordine nei miei pensieri per farlo e anche un po' di paura nell'esporle, nel ricominciare a scrivere in un posto che è sempre stato aperto a tutti. Capiscite a me, insomma.
Il mio periodo zen credo si sia appena concluso; è durato circa un anno, tra alti e bassi, ma mi ha dato tempo per rivedere tanti e tanti aspetti della mia vita che in un modo o nell'altro sono sempre rimasti insoluti. E anche per buttarmi a capofitto nelle nuove avventure che mi hanno assorbita in questi lunghi mesi.
La prima, sicuramente, è stata il mio nuovo lavoro, che è arrivato un po' per caso: un conoscente mi mette in contatto con un'azienda ed eccomi paracadutata nel mondo degli insegnanti di lingua non abilitati, che girano un po' per tutta la regione e insegnano in scuole, aziende, centri di formazione e via dicendo. E io mi ritrovo in una bella cittadina sul mare, con circa 100 studenti divisi in 4 classi, a insegnare inglese e latino in inglese. Stare dall'altra parte della cattedra è più difficile di quanto pensassi. Non solo per le responsabilità puramente pratiche e legali (anche se, dopo un anno alle elementari, ogni volta che vanno in bagno ringrazio di non dover temere che mi finiscano nel water), ma perché i miei ragazzi sono degli adolescenti pieni di vita, di bronci e di sogni, e mi devo conquistare tutti i giorni la loro fiducia.
Insegnare per me è diventato questo: comunicare, far capire ai ragazzi che siamo molto più simili di quanto credano, che un insegnante non è necessariamente un cerbero a tre teste ma qualcuno da cui si può trarre ispirazione e che può insegnarti qualcosa ben oltre il present perfect o il first conditional. Sicuramente la poca differenza di età aiuta (ci passiamo poco più di 10 anni), ma per la prima volta mi sento brava in qualcosa senza che nessuno me lo abbia insegnato. I ragazzi si fidano di me, mi seguono, migliorano, chi piano piano e chi a vista d'occhio, e quando i genitori vengono a parlare con me in sala professori mi dicono che tornano a casa e non fanno altro che parlare della prof di inglese che "ci legge Harry Potter, ci fa parlare di noi, guarda le nostre stesse serie tv, va al concerto degli U2! E ce lo dice tutto in inglese!". E poi, loro mi insegnano più di quanto io riesca a dare a loro: i ragazzi di quattordici anni sono libri aperti, la cartina tornasole di te stessa. Capisci se stanno male, se hanno bisogno di ridere, se sono pronti per una lezione più pesante o se quel giorno hanno voglia di parlarti di sé, in quel loro inglese mezzo maccheronico e sgrammaticato che però ti fa rabbrividire e ridere allo stesso tempo. Ma soprattutto tramite loro capisci cosa stai sbagliando e non solo come insegnante. Certo è faticoso, ma è bello capire giorno per giorno come rapportarsi ad ognuno di loro, invece di vederli come un gruppo. Ogni ragazzo ha qualcosa di unico ed è incredibile come sia stimolante e difficile scoprire cosa, giorno per giorno.
E nonostante le tre ore di viaggio, i due treni più un autobus ad andare e altrettanti per tornare, i mille compiti da correggere, le writings, la vicepreside che, come nella migliore delle tradizioni, è un cerbero a otto teste, sento un forte senso di appartenenza a quei ragazzi, un po' come se io fossi una di loro e loro miei. E mi scaldano il cuore ogni volta con i loro piccoli grandi gesti, come portarmi tanti mazzetti di mimosa in un giorno in cui non avrebbero dovuto nemmeno essere a scuola ma dovevano recuperare due ore con me, oppure offrirmi la pizza con la mortadella, i cioccolatini, la macedonia di kiwi e chiedermi consigli su quali romanzi leggere. Mi mancheranno quando non li avrò più.

In tutto questo, tra circa due mesi discuterò la tesi, scritta un po' sul treno, un po' a casa, un po' in giro per la grande città. Sta venendo fuori in un parto lento e doloroso, ma mi ci sto affezionando e credo che alla fine ne sarò davvero felice. Ve ne parlerò, non appena sarà in versione definitiva.
Una cosa molto buffa è che il giorno dopo la discussione dovrò presentare un paper in un convegno dall'altra parte dell'Italia, quindi credo che la proclamazione me la faranno direttamente alla stazione centrale. 

Io sono sempre io, forse un po' più magra, con i capelli un po' più corti, l'aria un po' più stanca, ma sempre io, sempre G. Da una parte, non sono mai stata più G di quanto non lo sia ora; dall'altra, il brusco cambiamento di rotta e accorgersi che al mio mobile Ikea mancavano delle viti mi ha trasformata in un'altra G. Una G 2.0, quella di cui vi parlavo qualche post fa, che più che comunicare con il mondo aveva bisogno di comunicare con se stessa e doveva fare un po' i conti con la propria vita.

Ora che ho capito che anche dopo certe inversioni di rotta 1+1 può tornare a fare 2 spero di essere più presente qui, e anche nei vostri angoli, che mi mancano molto. 

Soprattutto perché vorrei tornare a parlarvi presto di me, e di questo 1, che con me ritorna a fare 2.

Un abbraccio.