mercoledì 24 settembre 2014

Memorie di un Erasmus distratto #1 -Perché decidere di partire è il primo passo.

Il mio Erasmus è iniziato con un ricatto psicologico.

-Se fai così, vuol dire che non mi ami.-
E tanti cari saluti a casa.

Con la stessa determinazione fantozziana nel resistere alle profferte dei mafiosi, ecco, io ho risposto qualcosa come: -Rifiuto l'offerta e vado avanti.- Ma da sola.

E' dopo la supermegarottura che, come in un raptus di follia, decisi di fare domanda (come probabilmente per il 99,9% delle donne che sono partite). Perché io l'Erasmus l'avevo sempre considerato come una specie di araba fenice, qualcosa che esiste, ma che non ha una forma fisica reale. Qualcosa come la leggendaria aula multimediale della mia facoltà, che tutti cercano e che sembra cambiare posto come la Stanza delle Necessità di Harry Potter.

Maturai l'idea di partire per un ritiro mistico tra le nebbie inglesi, in quello che sarebbe stato uno schiaffo morale a lui e l'estrema unzione della mia vita sentimentale, che a quel tempo mi pareva irritante e melodrammatica come Dawson's Creek. E no, nulla mi avrebbe fatto cambiare idea. Nulla avrebbe potuto fermarmi, quell'unica borsa per il Regno Unito sarebbe stata mia, costi quel che costi: finalmente ero decisa e agguerrita come un gallo da combattimento, dovevo appropriarmi di quella fetta di vita che per anni mi ero negata nell'incosciente autosufficienza di una storia sghemba.

Inoltre, l'Inghilterra era il mio sogno da quando avevo imparato a pronunciarne il nome. E da quando era iniziata la mia carriera di linguista-specializzanda-in-letteratura-inglese.

All'epoca fare domanda era ancora qualcosa che, nella mia facoltà, destava sospetto e clamore. Fai domanda? Wow. Sei un mito. Ah, parti per l'Erasmus? Non perdi tempo?
Feci orecchie da mercante per due mesi, finché non consegnai tutto all'ufficio Erasmus, fiduciosa ma fatalista. 

La coordinatrice, Pina, calabrese d.o.c., con i suoi modi sbrigativi ed esuberanti, mi mise a disagio, facendomi una specie di 'colloquio' e snocciolando l'elenco delle borse disponibili per l'area anglofona, che ammontavano a:

-num. 1 per il Regno Unito
-num. 4 per Malta
-num. 1 per Copenaghen

Io, timida come nemmeno Mammolo davanti a Biancaneve in biancheria, cominciai ad iperventilare pensando al fatto che se questi erano gli auspici, avrei A) avuto serie difficoltà comunicative, perché le mie scarpe mi sembravano infinitamente più rassicuranti della faccia di chiunque mi stesse davanti e B) dovuto pregare tutti i santi del calendario per ottenere quella singola borsa.

Eppure rimuginavo, nei mesi di attesa che mi separavano dalle graduatorie, su me stessa nelle campagne inglesi a passeggiare come Elizabeth Bennet, o seduta alla finestra, la pioggia fuori, una tazza di tè (ogni tanto diventava cioccolata, a seconda dei casi), a riflettere e ad aspettare un'epifania, che mi rivelasse quale sarebbe stata la mia nuova vita senza TipoX. Volevo talmente riappropriarmi di me stessa, che divenni ancora più inferocita e bellicosa. William Wallace mi avrebbe fatto un baffo. 

Il giorno in cui uscirono le graduatorie, Pina mi chiamò al cellulare per dirmi di passare in ufficio, prima che venissero appese in bacheca. Io lo interpretai come un segnale, la fine, lo sgretolarsi dei miei sogni, eppure mi ripetevo -Nulla mi porterà via la borsa, nulla.-

Insomma, andò a finire che quel "nulla" si chiamava M.P. e risultò la prima in classifica con mezzo punto più di me. Pina mi fece i complimenti per essere la seconda in graduatoria e per la mia media alta e io mi ritrovai a lottare come Linus a cui strappano la sua coperta: mi avevano appena smontato tre mesi di fantasticherie. 

"Non capite! C'è un errore! E io dove vado a ritrovare me stessa!? Dove vado a perpetrare il mio silenzio stampa nei confronti dell'altro sesso?!"

Ma poi Pina mi guardò negli occhi, mi mise l'elenco sotto gli occhi e disse: "Beh, tu vai a Malta, no?"

...

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